Le estati che ricordo con più allegria e malinconia sono quelle passate a Laino, paesino di poche anime, in provincia di Como.
Io nel cortile di mio nonno alla prese con tutto ciò che si muoveva: formiche, mosche, galline, gatti....da cui mi sono anche presa una malattia che mi ha costretta in ospedale per un mese.
Io e i piccoli furti nella "stanza magica" del nonno piena di dolci, cioccolatini e quant'altro.
Avevo scoperto dove teneva la chiave e, di tanto in tanto, gli rubavo delle leccornie ma la vera attrazione delle mie estati era lui: il nonno Nene.
Un omone alto, bello, dalle mani grandi che aveva combattuto nella seconda guerra mondiale in Africa, era rimasto in acqua per ore appeso ad un pezzo di legno e i piragna gli avevano morsicato tutte le dita dei piedi.
Lui mi ha sempre raccontato così, io ci ho sempre creduto ma i suoi piedi però non li ho mai visti, li teneva sempre coperti.....forse era "complessato" pensavo io.
Comunque il nonno Nene aveva diversi punti fermi nella vita, a tavola mai il tovagliolo di carta ma di stoffa, pasteggiava sempre con un buon bicchiere di vino rosso da lui imbottigliato che beveva sempre nella stessa caraffa.
Ma l'abitudine che più mi piaceva del nonno Nene era il sonnellino pomeridiano, tutti i giorni dalle due alle quattro e tutti i giorni a quell'ora si scatenava l'inferno.
Sapevo di poter agire indisturbata, a quell'ora mia mamma era impegnata a lavare i piatti e mia nonna spesso dormiva anche lei quindi io mi muovevo nella grande casa con estrema libertà.
Passavo dalla cantina al solaio, dalla stalla all'orto alla ricerca di giochi pericolosi da svolgere e un pomeriggio ne trovai uno molto accattivante ma anche molto rischioso.
Il nonno Nene aveva una grande passione oltre che per il vino per la caccia infatti aveva trasformato un locale della lavanderia in una specie di negozio di uccelli.
Li trattava come fossero suoi figli, tutte le mattine all'alba li puliva, gli dava da bere e da mangiare e li metteva in cortile all'aria aperta così che potessero cantare, dato che gli servivano da richiamo quando cacciava, poi nelle ore più calde li rimetteva nel locale al fresco.
C'erano uccelli di tutti i tipi e misure, io ne ero tremendamente affascinata e quel pomeriggio inventai un gioco al quanto sadico: presi la canna dell'acqua, entrai nel locale, aprii il rubinetto ed innaffiai tutto ciò che mi si presentava davanti.
Non so cosa mi prese ma ero arrabbiata con quegli uccelli che erano lì chiusi in quelle gabbie senza mai lamentarsi, volevo svegliarli, vedere una loro reazione.
Sapevo di aver fatto qualcosa di molto grave così mi nascosi in camera mia e mi accorsi che mio nonno aveva scoperto tutto quando sentii le sue bestemmie arrivarmi dritte dritte nelle orecchie.
La scena che mi si presentò davanti era come un'inquadratura di un film su una città da cui era appena passato un uragano: ogni cosa era bagnata, ogni gabbia aveva litri d'acqua che fuoriuscivano e gli uccelli, con le piume infradiciate, avevano sguardi indifesi e terrorizzati.
Avrei voluto avere la macchina del tempo per poter tornare indietro a prima di quella malsana idea ma non avevo troppo tempo da perdere, chiesi scusa a mio nonno che continuava ad urlarmi nelle orecchie e andai ad attendere la sgridata di mia mamma e mio padre che non sarebbe tardata.
La sera arrivò presto e a cena mia mamma raccontò tutto a mio padre e mentre lo faceva un lieve sorriso le si palesava sulle labbra, quel sorriso si trasformò in una sonora risata che portò mia madre alle lacrime.
A cena quella sera scoprii che anche mia madre non amava il fatto che mio nonno tenesse quei poveri uccelli in gabbia, ecco il pomeriggio seguente li avrei liberati: sarebbe stato il mio prossimo gioco!